Teatro
Contemporaneo
Tre atti unici di teatro contemporaneo, intensi e asciutti, attraversati da pause, silenzi e cose non dette. Tre modi differenti di declinare il dramma dell’esistenza.
Fino alla fine
Lei… Lui… Loro…
Una lunga attesa
Pubblicato dalla casa editrice Demian Edizioni
LIBRO FUORI CATALOGO, EDIZIONE ESAURITA
Introduzione di Fausto Della Ceca.
Nei tre atti unici di Fabrizio Romagnoli qui pubblicati, quello che immediatamente cattura l’attenzione è il ritmo e la fluidità della scrittura drammaturgica, che l’autore recupera in toto dalla propria esperienza attorale.
Romagnoli è prima di tutto un interprete poliedrico che ha imparato a scrivere per il teatro non nelle fucine creative per diventare autori, ma sul palcoscenico dove si è cimentato, a partire dalla fine degli anni ottanta, coi personaggi della tragedia greca e della commedia dell’arte, per poi virare nei reparti del musical e della drammaturgia contemporanea, non trascurando il linguaggio cinematografico e televisivo, dove la sua sensibilità artistica ultimamente sembra aver trovato un campo d’azione privilegiato.
Tutto questo è confluito sulla carta dando vita a questi tre testi drammatici che sembrano rimandare alle small talk pinteriane e ricalcano, in chiave originale, l’antologia di nevrosi e ossessioni dei personaggi di Williams, senza dimenticare i meccanismi drammaturgici asciutti e perfetti di Mamet, anche se Romagnoli ricalca il pedale dell’umorismo e finisce per rovesciare continuamente le atmosfere dei suoi drammi psicologici nelle maglie della commedia soft.
La topologia che sta alla base dei suoi drammi tende alla costruzione di uno universo reclusorio, claustrofobico, fortemente concentrato, totalizzante, dal quale non si esce, proprio come nelle stanze di Pinter e Albee: uno spazio in cui sfilano personaggi esclusivamente femminili, alle prese con il plagio, in quanto c’è l’impossibilità di rapporto con l’altro che viene vissuto come la privazione della propria identità; ne nasce il senso dell’estraniamento, il dramma di un’esistenza che non si può realizzare se non in rapporti sadomasochisti. Relazioni pericolose irretite nel gioco perenne dell’amore che, in Romagnoli, diviene scontro inarrestabile, lotta, tensione, torsione della coscienza e della mente.
Accanto all’amore, ma non come parte integrante di esso, siede perentoria la sessualità con le sue fobie e paure, sempre come risultante di pulsioni più o meno represse e sempre come molla al possesso dell’altro.
Il gioco del dominio psicologico permea a sé tutto l’atto unico Fino alla fine, catapultando le due protagoniste, Laura e Maura, in un tête à tête a base di accuse, di disperanti bilanci, di tradimenti e di conflitti malcelati: una liaison autodistruttiva, mai pacificata, erosa dalla dipendenza reciproca, che – come ammette una delle protagoniste – “non ci lascia vivere”.
L’indagine esistenzialistica di Romagnoli, pur partendo da dati concreti, rasenta l’assurdo o diviene assurdo in Lei… Lui… Loro… In uno squallido monolocale, si consuma un livido ménage à trois, formato da Gio’, un attore fallito, Dani, la sua schiava-convivente e Loro, ovverosia un gruppo indistinto di ospiti che fanno scivolare la coppia in una realtà da incubo, mettendone a nudo le fobie, le morbosità, gli impulsi più o meno repressi o espliciti: il loro essere sul filo della follia o dichiaratamente folli.
Ma dell’esistere, Romagnoli, esplora sempre gli aspetti più dimessi, più quotidiani, meno appariscenti; sembra che con ossessiva frequenza calchi la mano su questo ritmo per far sì che anche quella umanità mediocre venga alla ribalta, abbia la sua porzione di eroismo, la sua tranche de vie, nella finzione scenica sostanziata dalla parola.
Una parola, quella di Romagnoli, costruttiva e distruttiva insieme: essa costruisce, con l’artificio che le è proprio, l’azione che poi però distrugge perché scava con forza disperante dietro qualsiasi piega, si introduce in qualsiasi sinuosità della psiche, sino allo smontaggio di un personaggio che mai, sin dall’inizio si presenta unitario, ma frammentario e frammentato, segmentato, analizzato senza pietà dall’autore. All’operazione di vivisezione non sfuggono nemmeno le quattro furie di Una lunga attesa, Miki, Flami, Eli e Vale, a cui Romagnoli tronca persino il nome (l’apocope dei nomi propri di persona è adottata anche in Lei… lui… loro…).
Nella pièce Una lunga attesa, grazie anche alla messinscena curata dallo stesso autore al Teatro Colosseo nel 2005, le sue anime scomposte sono barricate in una trappola per sorci di marca sartriana: qui si torturano a vicenda ripetendo ossessivamente un rito crudele, organizzato attorno al gioco delle carte: la partita-confessione si trasforma in un’inquisizione pirandelliana dove le cavie si confrontano, si sbranano per denunciare le reciproche menzogne, tanto che una di loro dichiara: “Mi vergogno della mia anima”.
Ma è un tentativo vano: più vogliono sapere e capire, più tentano lucidamente di gettare quelle maschere che portano appiccicate come una seconda pelle, perché cercano un’identità, una verità irraggiungibile, più ripiombano nell’incomunicabilità, che equivale alla perdita della propria coscienza; che è, sostanzialmente, incapacità di impossessarsi della realtà.
Perciò il rito messo in atto da Miki, Flami , Eli e Vale nella Lunga attesa, come negli altri testi di Romagnoli, è sempre un antidoto alla solitudine; è ribellione, ansia di libertà. Libertà dalla sofferenza, dal dolore, dai ricordi, dai sensi di colpa, dalle passioni, dalle pulsioni, dalla propria identità, dall’esistenza stessa.
E l’anelito alla libertà si materializza nel dialogo secco e fulminante, continua disputa, fuoco d’artificio di parole e di battute, ora impreviste, ora riflessive, ora ironiche, ma sempre brevissime. Le battute dominano in modo ipertrofico nei testi di Romagnoli. L’azione è ridotta all’osso e le trame si piegano al cicaleccio della conversazione, che predilige la sticomitia e s’infarcisce di anacoluti, di esclamazioni, riproducenti l’idioma contingente del parlato figurato, intimamente connesso al gergo cinematografico e televisivo.
Un linguaggio scoppiettante che sembra stia per esplodere; a volte si coagula nel soliloquio, altre volte evapora nel silenzio delle innumerevoli pause prescritte meticolosamente dall’autore.
Affidandosi alla spirito di battuta, Romagnoli carica di comicità le sue pièce carcerarie. Ne fuoriesce un sorriso amaro, anch’esso figlio delle psicosi, della solitudine, dell’ambiguità identitaria, ma pur sempre un escamotage che gli permette di scarnificare il mistero del mondo quotidiano con estrema leggerezza: forse è proprio questa l’unica salvezza contro l’horror vacui che soffoca la quotidianità del suo teatro reclusorio.
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